470 in cinque anni. Questo l’impressionante numero di urti di navi contro le banchine dei porti italiani o, in parte marginale, di navi battenti bandiera italiana nei porti esteri dal 2011 al primo trimestre del 2016. Collisioni talora con navi ormeggiate in banchina ma specialmente scontri con le banchine, a volte con effetti marginali che non hanno impedito alle unità mercantili, ai traghetti o alle navi passeggeri di ripartire e riprendere il mare aperto. In alcuni casi con conseguenze drammatiche e, in altri, risolti con una semplice riparazione delle lamiere danneggiate nonostante che la nave avesse superato ampiamente la frontiera invisibile che separa il rischio ordinario da una tragedia.
Questi alcuni dei dati contenuti nello studio messo a punto e coordinato da Bruno Dardani, in collaborazione con Massimiliano Grasso. Studio presentato oggi in anteprima a Genova nella forma del tutto inconsueta di un E-book e di un blog finalizzati a far comprendere cosa accada all’interno dei porti a quella stragrande maggioranza della popolazione italiana che è assolutamente all’oscuro non solo del ruolo della portualità e dei traffici marittimi (per altro strategicamente essenziali), ma anche e specialmente delle dinamiche e delle problematiche che quotidianamente caratterizzano l’interfaccia fra nave e porto.
Lo studio non è solo una raccolta di dati statistici. E’ anche e specialmente una raccolta di filmati e fotografie relative ai casi più clamorosi di “port crash”. L’obiettivo è di spiegare perché urti e collisioni siano così frequenti, in porti che possono essere equiparati a giganteschi parcheggi di navi e che negli ultimi decenni sono diventati terribilmente stretti, compressi in specchi acquei spesso delimitati da banchine e moli, progettati e realizzati secoli orsono e chiamati a ospitare navi di dimensioni sempre più grandi.
Introdotto da Luigi Merlo, consigliere del ministro dei Trasporti, e dall’ammiraglio Giovanni Pettorino (commissario dell’Autorità portuale di Genova) il tema dei port crash e quello inevitabilmente collegato delle limitazioni infrastrutturali con le quali devono confrontarsi i porti italiani, a oggi emarginati, ad esempio nel settore container, dai grandi traffici gestiti con navi giganti, è stato oggetto di un confronto al quale hanno partecipato, l’assessore regionale Edoardo Rixi il presidente di Assoporti, Pasqualino Monti, quello di Federagenti, Gian Enzo Duci, il presidente di Assiterminal, Marco Conforti e il consigliere di Confitarma, Roberto Martinoli.
Secondo l’Annual Overview of Marine Casualties and Incidents 2015 di Emsa, ovvero il rapporto annuale dell’European Maritime Safety Agency, nel quinquennio 2011-2014, il 42% degli incidenti che hanno visto coinvolte navi mercantili, traghetti, petroliere, bulk passeggeri, insomma la flotta mondiale, è avvenuto in acque ristrette e specie nelle acque portuali. E probabilmente se venissero presi in considerazione gli incidenti “da parcheggio”, la percentuale supererebbe abbondantemente la soglia del 50%.
Secondo un recente rapporto del Ministero delle Infrastrutture e dei Trasporti sui sinistri marittimi nelle acque territoriali e nei porti italiani si registra una forte e costante crescita degli urti contro oggetti fissi (in particolare banchine) e un andamento sostanzialmente stazionario delle collisioni, ovvero degli urti fra navi.
Lo studio che trae origine da tre drammatici eventi che hanno trasformato urti ormai di ordinaria amministrazione nei porti in tragedie del mare, analizza anche le caratteristiche delle professioni che interagiscono nello scacchiere portuale, ma anche la forza d'urto espressa da una nave in manovra. Una media portacontainer in rotazione a un nodo e mezzo di velocità ha una potenza d’urto pari a quella concentrata di cinque camion lanciati a 80 km all’ora nello stesso punto.
Forza d’urto che nella stragrande maggioranza dei casi viene assorbita nei porti da strutture come le banchine progettate per tale tipo di incidenti.
Al 42% di incidenti in acque portuali si somma un ulteriore 27% di sinistri che ha per teatro le acque costiere sotto le 12 miglia, sovente negli spazi dove le navi in attesa di ormeggio danno fonda alle ancore e dove comunque si sviluppa la fase iniziale o quella finale delle manovre che la nave compie per entrare o uscire dal porto. Nel periodo preso in considerazione da Emsa, fra casualties e incidents, 3.831 hanno avuto per teatro acque interne ai porti, ai canali o agli estuari di fiumi, seguite da 2.440 in acque costiere.
Sembrerebbe un paradosso considerando che le navi prese in considerazione spendono in acque interne meno del 7% del loro tempo, ma non è così. Un paragone? Analizzando le statistiche dell’Automobil Club Italiano si evince che la stragrande maggioranza degli incidenti stradali si verifica in aree urbane. Per le navi queste aree urbane sono i porti.
Lo studio, anche per gli strumenti di divulgazione scelti, si pone un obiettivo di conoscenza diffusa. Ovvero quello di far comprendere al di fuori della cinta portuale e della cerchia ristretta degli addetti ai lavori, il valore, ma anche le problematiche, le professionalità, lo skill e spesso il coraggio, ma anche i pericoli che caratterizzano attività altrimenti scarsamente note. Di qui la scelta di affidare non solo ai numeri, ma alle immagini, il compito di rendere comprensibile ciò che per molti è incomprensibile, e per la stragrande maggioranza degli italiani sarà una scoperta.
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